
Nato in Scozia, prima di diventare un copywriter fu chef dell’hotel Majestic a Parigi, venditore porta a porta di elettrodomestici, giornalista, ricercatore per la Gallup e 007 al servizio segreto di sua Maestà, durante la Seconda Guerra Mondiale.
A 38 anni, divenne un pubblicitario e fondò l’agenzia di pubblicità Ogilvy & Mather.
Si preoccupò sempre di costruire il mito di se stesso: leader, scrittore e narciso, visse gli ultimi anni della sua vita in un castello francese del XIV secolo.
Confession of an Advertising Man del 1964, tradotto in Italia nel 1989 come Confessioni di un pubblicitario, è uno dei più completi trattati sulla pubblicità (e uno dei libri più venduti tra quelli scritti da un pubblicitario).
Negli anni di maggiore attività come copy, lavorò soprattutto su prodotti prestigiosi, più adatti alle pagine del New Yorker che agli schermi televisivi. Anche per questo le sue teorie si rivolgono soprattutto alla stampa, più che ad altri media.
In quell’epoca non esistevano ancora gli art directors: erano i copywriters a scrivere i testi e ad immaginare i visual. Poi veniva passato tutto al typographer, esperto di caratteri tipografici, cui spettava l’onore dell’impaginazione.
David Ogilvy fu tra i primi a sostenere l’importanza della strategia di comunicazione.
Era il presupposto per creare attorno al prodotto valori simbolici, destinati a formare un’immagine ricca, affascinante e duratura.
“Ogni annuncio pubblicitario dovrebbe essere inteso come un contributo a quel simbolo complesso che è l’immagine di marca”.
“Non esistono sostanziali differenze tra le varie marche di whisky, di sigarette o di birra. Sono quasi tutte uguali. Lo stesso dicasi dei budini, dei detersivi o della margarina. Però quell’azienda che riuscirà ad offrire la personalità più spiccata alla sua marca (naturalmente grazie alla pubblicità) riuscirà ad assicurarsi una maggiore quota di mercato con maggiori profitti”.
David Ogilvy non fu il primo a parlare di Brand Image, ma fu il primo ad affrontare il problema di un territorio ideale per la marca.
Come copywriter sapeva fondere titoli evocativi con testi lunghi e argomentati.
“A sessanta miglia all’ora, il rumore più forte in questa nuova Rolls-Royce viene dal ticchettio dell’orologio elettrico”.
Questa la headline che lanciò la Rolls-Royce Silver Cloud. Ecco il suo stile: l’eleganza di un dettaglio rivelatore, di un particolare che si arricchisce, nell’immaginazione di chi legge, di altre e più ampie suggestioni.
Il lusso, l’alta tecnologia e il comfort, vivono nel ticchettio dell’orologio.
Nella body-copy 607 parole divise in tredici punti più uno, si dilungano nell’illustrazione dettagliata delle caratteristiche tecniche del modello.
David Ogilvy racconta di essere ricorso spesso allo story appeal che potremmo tradurre come “fascino del racconto” o con il più attuale story telling. Le sue parole sono un’istantanea di una storia più lunga che non ci viene raccontata, ma che sta a noi immaginare.
Una delle sue campagne più note è quella per le camicie Hathaway. Il primo titolo è molto semplice: “L’uomo nella camicia Hathaway”. Ma l’uomo che vediamo in sartoria, elegantissimo, pugno sul fianco e aria padronale, ha una benda nera sull’occhio destro. Ogilvy racconta di aver avuto diciotto idee per rendere memorabile l’immagine del barone russo che era il modello della campagna. La benda nera era la diciottesima della lista.
“Quello che mi era sembrato uno spunto relativamente buono, cascato dal cielo in una piovosa mattina di marzo, mi ha fatto diventare famoso. Francamente avrei preferito diventarlo per qualcosa di più serio”. L’uomo nella camicia Hathaway iniziò la sua vita di abitudini esclusive: copiare un Goya al museo, suonare l’oboe, dirigere l’Orchestra Filarmonica di New York, tirare di scherma, acquistare un quadro all’asta. Ma sempre con lo stesso story appeal che ci fa chiedere: come mai quella benda nera?
Dalla benda nera nascono, e si moltiplicano, gli interrogativi sul prima e sul dopo.
Il non detto diventa più importante del detto, l’implicito riempie di significato l’esplicito.
L’immagine di marca della camicia Hathaway vive di un mistero che ciascuno di noi può riempire. Il fascino del racconto si concentra in una sola immagine, forte e ambigua. È questa “The Big Idea” che Ogilvy racconta di aver cercato in ogni sua campagna, prima di farla diventare un metodo per colleghi e dipendenti.
“Se una campagna pubblicitaria non è costruita attorno ad una grande idea è destinata a fallire”.
Memorabile è anche il rispetto che Ogilvy aveva per i consumatori:
“La responsabile degli acquisti non è una scema. È vostra moglie. È un insulto alla sua intelligenza pensare che basti uno slogan cretino e qualche aggettivo consunto per convincerla a comprare qualsiasi cosa”.
10 consigli che Ogilvy dava ai suoi copy.
- Leggi il libro di Roman-Raphaelson sulla scrittura. Leggilo tre volte.
- Scrivi come parli. Con naturalezza.
- Usa parole brevi, frasi brevi e paragrafi brevi.
- Non usare mai parole gergali come riconcettualizzazione, demassificazione, attitudinalmente, accattivante. Sono caratteristiche degli asini pretenziosi.
- Non scrivere mai più di due pagine, su qualsiasi argomento.
- Controlla le tue citazioni.
- Non inviare mai una lettera o un promemoria il giorno stesso in cui l’hai scritto. Rileggilo, ad alta voce, la mattina successiva e correggilo.
- Se si tratta di qualcosa di importante, chiedi ad un collega di aiutarti.
- Prima di inviare la tua lettera o il tuo promemoria, assicurati che sia chiaro cosa vuoi che faccia chi la leggerà.
- Se volete ACTION, non scrivete. Andate dal ragazzo e ditegli quello che volete.
3 Libri per aspiranti copywriter
La parola immaginata. Teoria, tecnica e pratica del lavoro di copywriter.
Di Annamaria Testa
Il mestiere del copywriter. L’arte della scrittura creativa.
Di Alastair Crompton
Di Frederic Beigbeder